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Nella nostra vita quotidiana hanno ormai grande importanza i social networks, cui spesso affidiamo la pubblicazione di pensieri e immagini.

La relazione con la Rete (e l’introduzione nella stessa di considerazioni e dati, in senso lato, che prendono spunto dal nostro vissuto quotidiano) presenta, tuttavia, alcuni lati più o meno oscuri, che (soprattutto nel caso dei nostri figli) ci espongono a numerosi rischi.

E’ il caso delle considerazioni e dei giudizi manifestati nei confronti di alcuni fatti (o alcuni soggetti), pubblicati e condivisi in rete.

Sono soprattutto le espressioni valutative (in particolare, dalla finalità dispregiativa o accusatoria) che rischiano di aver riverberi imprevedibili sul soggetto dal quale “sembrano” provenire.

Infatti, negli uffici delle nostre Procure, giacciono numerosissime querele, presentate da persone che si ritengono offese nel proprio decoro e reputazione, da commenti postati in rete.

Sino a poco tempo fa, i Giudici hanno ritenuto che detta condotta integrasse la fattispecie del reato di diffamazione.

Infatti, già con la sentenza del 24 marzo 2014, n. 13604, la Corte di Cassazione stabilì che la pubblicazione e diffusione su Facebook di contenuti che offendono l’onore e la reputazione di un utente integrassero responsabilità da fatto illecito, da cui deriva l’obbligo di risarcimento economico del conseguente danno morale. La novità della sentenza del 2014 fu, soprattutto, quello di aver anche sancito che non fosse necessario indicare nome e cognome della persona a cui è rivolta un’allusione offensiva, ma semplicemente che la vittima fosse “facilmente individuabile”.

I Giudici della Suprema Corte, però, si spinsero ancora oltre, applicando in modo particolarmente severo i criteri fissati dal Codice penale per accertare la sussistenza del reato di diffamazione.

Infatti, con la sentenza n. 24431/2015, gli Ermellini giunsero a qualificare il comportamento di chi inserisca un commento offensivo su una bacheca di un social network come diffamazione aggravata, dal momento che, mediante la pubblicazione in Rete, il predetto messaggio acquisterebbe la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone.

Tuttavia, essendo sempre più frequente la creazione di profili “fake” (cioè fasulli, ossia provenienti solo apparentemente da un determinato soggetto) e l’utilizzo di dati da parte di soggetti non titolari degli stessi, l’accertamento relativo all’effettiva provenienza dei messaggi offensivi, inseriti in Rete, appare di particolare complessità per le Procure (e per gli appartenenti alla Polizia postale) incaricate dello svolgimento delle relative indagini.

Se è vero, infatti, che Facebook non fornisce adeguata protezione ai dati dei titolari dei profili attivati, né richiede particolari oneri al fine di accertare la veridicità dei dati comunque inseriti (come riconosciuto da numerose decisioni del Garante italiano per la protezione dei Dati personali, tra cui spicca la n. 4833448 dell’11.2.2016), il fatto che un determinato messaggio “sembri” provenire da un determinato profilo non è sufficiente (né idoneo) da solo a provare alcunché.

In altre parole (e sul punto anche i Garanti Privacy di Francia e Spagna hanno più volte sottolineato detto limite), il social network Facebook attualmente non fornisce adeguata tutela ai dati degli utenti, tale da impedire che un soggetto estraneo (e abusivo) possa utilizzarli per creare un profilo “fittizio”, solo apparentemente riconducibile al soggetto “derubato” dei propri dati.

Infatti, per verificare l’effettiva provenienza di un messaggio, si dovrebbe risalire ai cosiddetti “files di log” e sottoporre questi ultimi ad accurati accertamenti. Tuttavia, i files di log hanno una vita in Rete molto breve e la loro acquisizione necessita di autorizzazioni particolari da parte dei gestori dei diversi Networks.

Spesso, infatti, le Procure incaricate delle indagini per questo tipo di delitti, non riuscendo ad acquisire detti metadati in tempi brevissimi, sono costrette a richiedere l’archiviazione della notizia di reato, in quanto non supportata da prove (o da indizi gravi, precisi e concordanti) idonei a sostenere l’accusa in un eventuale giudizio.

Adeguandosi a questa nuova realtà e alla diffusione (e utilizzazione) indebita dei dati personali inseriti in Rete, anche i giudici della Cassazione hanno mutato il loro orientamento, adottando un atteggiamento meno severo nei confronti di coloro che, in apparenza, diffondono messaggi, offensivi o ingiuriosi, attraverso l’utilitizzo dei social networks.

Infatti, con la recentissima sentenza n. 5352 del 2018, la V Sezione della Corte di cassazione ha introdotto il principio per cui non può scattare la condanna per diffamazione se non è accertato l’indirizzo IP (mediante, appunto, la verifica dei relativi files di log) da cui proviene il messaggio che offende la reputazione.

Ad ogni buon conto, è opportuno precisare come solo parte delle Procure territoriali abbia deciso di adeguarsi ai rilievi mossi da più parti circa l’inadeguatezza delle indagini, relative all’accertamento incontrovertibile degli IP di provenienza dei messaggi, oggetto di segnalazione da parte del querelante e che, a tutt’oggi, esista la possibilità di vedersi indagati per un semplice commento (sgradevole per taluni), apparentemente proveniente dal proprio profilo.

Avv. Tiziana Brizzi